Neanche 30 anni, due figli, un marito rimasto in Siria di cui non ha più notizie. E’ Ibtisam, che ogni giorno accompagna i suoi bambini a scuola.
Per raggiungere il centro di Assomud si deve passare per un vicolo nascosto da una cortina di bancarelle che animano la vita del campo, sulla strada principale di Shatila. E’ più facile scorgere l’insegna posta in alto sullo spigolo di un palazzo, con una freccia di vernice rossa storta circondata da una matassa di fili elettrici, che la stradina da imboccare.
Attraversare il cuore di Shatila, la mattina, può essere un’impresa. Richiede un notevole impegno. Ci scorrono macchine e centinaia di persone contemporaneamente,motorini con intere famiglie a bordo, qualche raro temerario in bicicletta, adolescenti che vendono bibite o consegnano manaish e vecchiette che sotto il peso degli anni e di una discreta quantità di speranze disattese, camminano lentamente e si fermano da ogni ambulante per scambiare due chiacchere. Le stesse che hanno fatto ieri, le stesse che faranno domani.
Una sequenza di cortesi convenevoli. Suonano come una garanzia, servono ad affermare che anche oggi sei su questa terra e lo stesso vale per il tuo interlocutore.
Dal clamore della strada si accede in un vicolo buio. Suoni, voci e clacson si attenuano, in compenso dalle finestre che si affacciano è possibile sentire le conversazioni private degli abitanti. A volte si parlano da davanzale a davanzale, dal piano di sopra a quello di sotto, da un edificio all’altro. Più di una casa è in fase di ampliamento. Lo spazio è poco, i figli si sposano e ci si allarga, si sale in altezza.
ll campo e i suoi vicoli sono un cantiere costantemente aperto dove spesso, non per scelta, regna la tacita regola del non finito. A una casa mancano ancora gli infissi; in un’altra c’è il solaio per fare un balconcino ma non ci sono ancora le ringhiere; a destra dai piloni spuntano i ferri di cemento armato scoperti e già arrugginiti; il nuovo negozietto di sinistra ha un’enorme insegna riciclata e polverosa ma dentro è ancora vuoto, ad eccezione di una bandiera del Real Madrid. Manca sempre qualcosa ma non manca mai la vita.
Alzando lo sguardo si possono intravedere interni bui illuminati dai lampi di un televisore, un giornalista con la voce distorta dal tubo catodico elenca le ultime notizie sul Medio Oriente. Anche oggi, niente di buono. E i palestinesi continuano a sentirsi dimenticati o da chi li rappresentao dalla comunità internazionale. I più giovani, da entrambi.
Qualche raggio di sole riesce a scappare al cemento e si ferma nei pressi dell’entrata del centro, le voci dei bambini che si chiamano come uccelli pronti a migrare sono un segnale chiaro: le lezioni sono finite.
Davanti all’ingresso c’è sempre qualcuno: chi ha da mostrare un certificato medico, chi vuole un consiglio per il figlio, chi chiede vestiti, chi vuole iscrivere all’asilo l’ultimo arrivato. E poi ci sono le mamme. Sanno che tra pochi minuti dal portone spunteranno i figli e si dovrà correre a casa e mettersi a tavola.
Ibtisam è una di loro. Una giovane donna siriana palestinese. Neanche trent’anni, due figli, un marito rimasto in Siria di cui da troppo tempo non ha più notizie. Ogni giorno accompagna e va a riprendere i suoi due bambini iscritti alle classi temporanee del programma “Family Happiness”, grazie al nostro sostegno a distanza attivato da due famiglia italiane.
Vive in uno scantinato di Shatila assieme ad un’altra famiglia di 6 persone. Un unico spazio privo di finestre. Il ricambio d’aria è garantito dalla porta d’ingresso, che spesso tengono socchiusa durante il giorno. L’umidità ha disegnato sulle pareti aloni grigi e verdi e dove la vernice si è sollevata, diffondono il classico sentore di muffa. Sheima e Ahmed, i figli di Ibtisam, dicono che quegli aloni sembrano fiori.
Con un sistema di fili per stendere, mollette di plastica¬ e teli, sono riusciti a organizzare due piccoli ambienti dove le due famiglie possono dormire e uno spazio comune per cucinare e trascorrere il tempo insieme.
Quando dalla Siria sentono qualche parente e ricordi e angoscia prendono il sopravvento, aspettano semplicemente che il tempo passi. “Aspettiamo – racconta Ibtisam – ma non ci abituiamo”.
Da poco, grazie a una colletta fatta tra vicini, hanno comprato una piccola televisione di terza mano. La tengono sempre accesa per seguire quanto succede in Siria.
“Da quando questa novità si è aggiunta alla routine familiare ho convinto i miei figli a studiare nella stanza dove dormiamo. Quando fanno i compiti c’è il tacito accordo con i coinquilini di abbassare il volume del televisore”, racconta Ibtisam.
“I miei bambini hanno perso il diritto di vivere in pace nel paese in cui sono nati e cresciuti, non hanno il diritto di vedere il padre, non hanno il diritto di vivere in una casa sana. Non so quando potremo tornare in Siria, non riesco neanche a immaginare quanto tempo ci vorrà per rimetterlo in piedi il nostro paese. Nel frattempo, l’unica cosa che voglio assicurare loro è la possibilità di continuare a studiare. Per me non si tratta solo di un desiderio, ma di un diritto che come madre rivendico per loro”, sottolinea.
Da quando hanno ripreso ad andare a scuola, sono più sereni. In classe c’è un clima di cooperazione e hanno nuovi amici con cui giocare.
Se finiscono i compiti senza fare storie possono guardare i cartoni animati, ma solo dopo che hanno ripetuto alla mamma le pagine che avevano da studiare. “A volte mi sembra di essere troppo severa – sospira – ma da quando mio marito non è al mio fianco devo fare da padre e da madre. Per i palestinesi in Libano la vita è così difficile… non c’è confronto con quella che avevamo in Siria”.
A volte i bambini le chiedono quando potranno tornare a casa, in Siria, e Ibtisam proprio non sa cosa rispondere. “Appena sarà possibile”, dice loro.
“Poi aggiungo che nell’attesa, il modo migliore per far passare velocemente il tempo è andare a scuola, scoprire le meraviglie della scienza e della storia, superare l’anno scolastico, continuare a studiare”.
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Foto di Giulia Della Torre.